CHI SI LODA SI SBRODA - XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
Nel Vangelo di questa settimana troviamo in forma teologica, quel detto popolare che dice: “chi si loda si sbroda!”.
Il fariseo di cui si parla è entrato nel tempio come si entra da un contabile, da un commercialista: anziché l’ammissione di colpa come il re Davide nel salmo 50 “Contro di te ho peccato […] il mio peccato mi sta sempre dinanzi”, attua un’altra dinamica: “Ecco Dio tutto quello che ho fatto per te, annota che ho pagato quanto dovevo e tutto nei tempi stabiliti! Anzi, adesso ripagami tu con il premio che merito per la mia puntualità”… e, come se non bastasse, fa tutto questo cercando di mettere in cattiva luce il pubblicano. Ma Dio è Padre, e non si può entrare nelle grazie di un padre parlandogli male di uno dei suoi figli! L’errore del “corretto” fariseo ci è molto familiare: il confronto. Il mettere sulla bilancia le vite secondo criteri tutti e solo umani. Ma la vita non va mai paragonata, non è un esercizio grammaticale del comparativo, che nella migliore delle ipotesi si risolve in un comparativo di uguaglianza, e che spesso applica quello di minoranza, cioè un giudizio svalutativo, quasi volesse esprimere il desiderio di affogare l’altro nell’abisso delle proprie colpe ed errori, per stare a galla noi. Occorre invece imparare dal Padre che usa per ciascuno dei suoi figli sempre un superlativo assoluto.
Ecco nella preghiera del fariseo, sembra emergere che nessuno sia alla sua altezza, adeguato a stare alla sua presenza, forse nemmeno Dio (!) a cui il testo fa implicito e delicato riferimento richiamando quel “io sono”, che è il nome primo, originario, di Jhavé.
L’atteggiamento negativo del fariseo, non sta nelle cose buone che compie, quanto nel fatto che le buone azioni non vanno rivendicate, protestate e mercificate dinanzi a Dio! E ancor di più, mai le buone azioni, possono vendere l’altro. Il fariseo pensando di non aver nulla a che fare con il pubblicano, spezza la fraternità con il giudizio inappellabile, che diventa come una “pena di morte”- “grazie che non sono come lui”. E così si uccide l’altro.
Eppure il Signore ci dice che anche se fragili e impantanati nel male, noi in Lui, con Lui, “siamo morti al peccato”. (cfr. 1Pt 2,24) Anche se capaci di reiterare gesti e parole di male, prima o poi, quel batterio resistente sarà vinto! Ecco la buona battaglia della fede e la speranza che ci abita!
Il sentimento del pubblicano che fa del battersi il petto, il suo tamburo di guerra in questa battaglia, dichiara invece, la sua povertà, che rimane l’unica ricchezza, la possibilità per aprire il cielo ed entrare nella confidenza e tenerezza di Dio. Il pubblicano ha sviluppato la consapevolezza di non essere ancora giusto ma di poterlo diventare! E la Scrittura ci dice che “la preghiera del povero attraversa le nubi”, perché all'uomo che non ha nulla da chiedere e non deve chiedere mai, il Signore predilige l’incapace capace di chiedere aiuto. Anche perché per l'anima “bella” del fariseo, cosa c’è, e cosa resta da fare? Solo da notificare, sottoscrivere, applaudire l’eroe.
Peccato che quello è il posto che spetta al Signore, che è venuto proprio per l’anti-eroe, per i “peccatori, gli ingiusti, i malati”… Allora quell’appuntamento al tempio è per il fariseo come un appuntamento sprecato, un colloquio finito con il triste “le faremo sapere” che poi si risolve quasi sempre in un “non abbiamo bisogno di una figura 'professionale' di questo tipo”… Perché? Perché il Signore ci dice di essere venuto per le anime “brutte”, quelle cioè che abbisognano di un Salvatore, che hanno il desiderio di imparare a vivere e amare... quelle che, lavate dalla Sua grazia, diventano buone.
Il Signore sta cercando pubblicani che dicano “Non ho giustificazioni, non ho un avvocato, non ho scuse, ma ho un Padre!” questi attraggono l’attenzione di Dio, che vede in quell’ammissione del limite una possibilità e uno spazio per una relazione autentica. “E’ vero Signore sono un peccatore, sto sbagliando, è cosa brutta quella che sto facendo, ma non mi ci voglio più riconoscere”…. Siamo tutti in cerca di giustificazione, di un giusto senso per il nostro cammino, ma questa parabola ci ha mostrato che non siamo noi a doverci giustificare, parlandoci addosso. Per il credente questo è il dono che spetta a Dio, e che ci viene promesso.
Il Suo pane è il cibo che è dato per tutti, per la remissione dei peccati e per la salvezza. Non siamo dal commercialista ... ma alla tavola del Signore, in qualità di figli ed eredi.
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». (Lc 18,9-14)